In memoria dei martiri Cambogiani

Posted by on Mag 11, 2015 in News | 0 comments

10857234_835280609840801_1304043843338901842_oTangkok – Maggio 2015

Tutti gli anni nel mese di maggio la chiesa cambogiana si runisce a Tangkok, villaggio nella provincia di Kompong Thom, in una cerimonia sentita e partecipata, per ricordare i cambogiani martiri durante il regime dei khmer rossi, dalla cui liberazione si sono ricordati i 40 anni proprio il 17 aprile scorso. Durante quegli anni che hanno visto la morte di almeno un milione e mezzo di persone, anche i responsabili della Chiesa, preti, religiosi e laici, cambogiani, vietnamiti e francesi, sono morti. Dal 1975 al 1979, nel quadro della repressione che ha colpito tutto ciò che minacciava la costituzione di una nuova Cambogia in una società agraria completamente autosufficiente e isolata da influenze straniere, la popolazione fu deportata in fattorie comuni, furono abolite scuole, banche, ospedali, religione e moneta, furono giustiziati i militari del precedente regime, i funzionari statali, gli intellettuali, i liberi professionisti, i bonzi. I cristiani condivisero la stessa sorte di tutto il popolo cambogiano: deportati, morti di stenti, anche giustiziati perchè cristiani. Alcuni di loro ebbero la possibilità di espatriare, ma scelsero volontariamente di restare. Come p. Pierre Rapin, francese, a cui venne consigliato di lasciare la missione a Kdol Leu nel 1972, ma che dopo aver chiesto un parere ai cristiani del suo villaggio, scrisse un semplice biglietto a p. Ponchaud che lo aveva richiamato: “I cristiani mi hanno chiesto di rimanere, sia fatta la volontà di Dio”. Poco dopo venne ucciso da una bomba posta deliberatamente in casa sua. Come p. Joseph Chhmar Salas, sacerdote cambogiano nel 1975 in Francia per studio, che ricevette una lettera dall’allora vescovo di Phnom Penh Yves Ramousse, francese, invitandolo a tornare in Cambogia: si presagiva l’entrata dei khmer rossi, gli stranieri sarebbero stati espulsi ed era necessario ordinare un vescovo cambogiano per non lasciare la Chiesa senza pastori. P. Salas tornò senza farsi troppe illusioni sul futuro, venne in fretta ordinato vescovo 3 giorni prima della presa della capitale da part dei khmer rossi e fu poi mandato nel villaggio di Tangkok, riuscendo fortunatamente a restare insieme ad alcuni cristiani e alla sua famiglia tra cui la sorella Pracot, preziosa testimone, il fratello minore Salem, anche lui sacerdote, la mamma e p. Chamroeun, un altro sacerdote cambogiano. P. Salas si fece poi volontario delle truppe mobili di settore, nella speranza di raggiungere i cristiani dispersi nel paese, ma debilitato morì nel 1977 di stenti e malattia in una pagoda adibita ad ospedale, una Bibbia in francese con sé. La sorella racconta delle Messe celebrate di nascosto nella capanna di paglia loro assegnata, il letto come altare. All’esterno alcuni cristiani, fingendo di lavorare, erano messi in postazione per avvisare, attraverso segnali in codice, dell’eventuale avvicinarsi dei khmer rossi. Allo stesso tempo uniti nella preghiera al sacerdote che celebrava, “nell’offerta della propria fame e delle proprie sofferenze”, dice una testimone. Oggi a Tangkok la capanna di paglia è stata ricostruita, ma il letto è proprio quello di un tempo, dove si è consumata così tenacemente l’Eucarestia, letto come memoria della storia e segno di una Chiesa che è viva. La croce pettorale del vescovo Salas, conservata dalla madre in un pollaio, è stata poi riconsegnata nel 2001 dalla stessa madre all’allora vescovo Emile Detombes e poi passata al suo successore mons. Olivier Schmitthaeusler che tutt’oggi la indossa. Un’eredità che non schiaccia, ma al contrario, apre alla speranza e libera.

Insieme a p. Rapin e p. Salas, tanti altri sono morti. I religiosi e religiose rimasti nel paese e giustiziati. I responsabili laici di diverse comunità: tra questi San, ucciso nel 1975, Ros En con sua moglie e i 3 figli, uccisi nel 1978, Thong, ucciso nel 1978.

Una lista di nomi e cognomi che possono sembrare apparentemente insignificanti, ma che parlano di vite donate, di una chiesa che è cresciuta anche grazie a queste vite saldamente ancorate alla pietra angolare. E che solidamente sostengono questa Chiesa fragile che è viva e cresce.

Prima del ’75 i cristiani in Cambogia erano prevalentemente vietnamiti o cambogiani di discendenza portoghese e non ci sono state se non poche conversioni. Lo stesso vescovo Emile dice di aver battezzato solo 3 adulti nel giro dei 15 anni prima del regime di Pol Pot. Oggigiorno i 200-300 battesimi di adulti all’anno non sono un numero da sbandierare per gli amanti delle statistiche o per esibire “i risultati” dell’evangelizzazione, ma la testimonianza di una Chiesa che è viva e cresce anche grazie ai martiri che la sostengono.

Quest’anno la celebrazione della memoria dei martiri, il 1 maggio a Tangkok, è stata accompagnata da un momento importante: l’apertura ufficiale del processo diocesano di beatificazione di questi cristiani, uomini e donne, sacerdoti, religiosi e laici. Da tempo era stata avviata la fase preliminare di raccolta di testimonianze, di composizione della lista dei nomi e di creazione del profilo dei martiri.

Ma la spinta decisiva è avvenuta l’estate scorsa, nell’occasione dell’incontro del Papa con i giovani dell’Asia in Corea, quando prima un giovane cambogiano poi lo stesso vescovo di Phnom Penh, hanno parlato al Papa di questi martiri ancora non riconosciuti dalla Chiesa ed il Papa si è preso a cuore la situazione, confermando poi il suo sostegno in una lettera al vescovo Olivier. Sostegno come riconoscimento di una Chiesa che, per quanto piccola, è stata grande nella testimonianza in mitezza e forza di fronte alla prova.

La celebrazione del 1 maggio è stato quindi un momento importante per la Chiesa cambogiana, orgogliosa di essere frutto di questa storia.

Testimoni raccontano che in una tappa del cammino durante l’evacuazione da Phnom Penh verso nord, nell’aprile del 1975, il vescovo Chhmar Salas li aveva benedetti dicendo: “Fratelli, non avremo forse più l’occasione di radunarci in preghiera. Ma nessuno di voi si dimentichi di pregare. Anche se dovrete affrontare fame, miseria e sofferenza, conservate la fede e comunicatela. Offrite le vostre vite per la salvezza della Cambogia”.

È quello che i martiri hanno fatto con le loro vite.

 

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